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mardi, 06 janvier 2009

America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

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America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

Tiberio Graziani / http://www.eurasia-rivista.org

L’avventurismo statunitense in Georgia e la profonda crisi economico-finanziaria che investe l’intero sistema occidentale hanno definitivamente evidenziato l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’attuale momento storico. I paradigmi interpretativi basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia non sembrano più essere validi per delineare i prossimi scenari geopolitici. Una lettura continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali ci permette di individuare nell’America indiolatina e nell’Eurasia i pilastri del nuovo sistema internazionale.


L’incapacità statunitense di governare


La recente questione georgiana ha definitivamente posto una pietra tombale sul cosiddetto unipolarismo statunitense e, soprattutto, sembra aver reso effettivo un sistema geopolitico articolato ormai su poli continentali, cioè un sistema multipolare.

Ciò non è stato affatto colto dalla maggior parte degli osservatori ed analisti, i quali, pur consapevoli del tramonto della “nazione indispensabile” (secondo l’ardita definizione dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright), in margine alla crisi agostana tra Mosca e Tiblisi hanno ripetutamente fatto riferimento ad un nuovo bipolarismo e ad una riformulazione della “guerra fredda”. In realtà, siamo ben lontani dalla riedizione del vecchio sistema bipolare, e non soltanto perché le motivazioni ideologiche (tra cui l’antitesi comunismo-capitalismo, totalitarismo-democrazia), che hanno caratterizzato il dopoguerra dal 1945 al 1989, e dunque fornito linfa all’equilibrio bipolare, sono venute meno, ma, soprattutto, perché grandi paesi di dimensione continentale, come la Cina, l’India e il Brasile, in conseguenza del loro sviluppo economico e grazie alla coscienza geopolitica che anima da circa un buon decennio le loro rispettive classi dirigenti, ambiscono, responsabilmente, ad assumere impegni politici, economici e sociali a livello planetario.

Bisogna subito dire, però, che il declino del sistema unipolare a guida statunitense non significa affatto la fine dell’egemonia di Washington, tuttora presente, anche militarmente, in vaste aree del Pianeta. Quella di Washington è per il momento un’egemonia ridotta, con cui le nuove entità geopolitiche dovranno confrontarsi ancora per qualche anno. Un’egemonia, teniamo a sottolineare, forse più pericolosa del passato per la stabilità internazionale, perché appunto traballante e suscettibile, pertanto, di essere gestita da Washington e dal Pentagono con scarso equilibrio, come la crisi georgiana ha ampiamente dimostrato.

La profonda crisi strutturale dell’economia degli USA (1) ha contribuito soltanto ad accelerare un processo di ridimensionamento dell’intero “sistema occidentale” che, iniziato a metà degli anni ’90, veniva tuttavia registrato solo nei primi anni dell’attuale secolo da autori come Chalmer Johnson ed Emmanuel Todd nella rispettive analisi sulle conseguenze cui gli Stati Uniti, quale unica potenza mondiale egemone, sarebbero presto andati incontro (2) e sulla decomposizione del sistema statunitense (3).

Johnson, profondo conoscitore dell’Asia, e del Giappone in particolare, osservava, tra il 1999 e il 2000, che gli USA non sarebbero stati in grado di gestire il loro rapporto con l’Asia, se avessero perseguito i “reiterati tentativi del loro governo di dominare la scena mondiale” (4). Tra i cambiamenti, già visibili, che avrebbero nel prossimo futuro delineato un nuovo quadro geopolitico, Johnson poneva la propria attenzione al crescente tentativo della Cina di emulare le altre economie dell’Asia orientale a crescita intensiva (5). Lo stesso autore, riferendosi all’impietosa analisi illustrata da David Calleo (6) nel lontano 1987 sulla disgregazione del sistema internazionale, riteneva che gli Stati Uniti di fine secolo fossero “un egemone rapace” “dotato di scarso senso d’equilibrio”.

Anche il francese Todd, come l’americano Johnson, riteneva che gli USA, a causa delle guerre in Medio Oriente e in Jugoslavia, fossero diventati, ormai, un elemento di disordine per l’intero sistema internazionale; secondo Todd, inoltre, l’interdipendenza economica era a netto svantaggio dell’economia statunitense, come la crescita del deficit economico dell’ultimo decennio indubbiamente dimostrava.

Alcuni anni dopo, nel gennaio del 2005, un acuto e brillante osservatore come Michael Lind della New America Foundation sosteneva, in un importante articolo pubblicato sul “Financial Times” (7), che alcuni Paesi eurasiatici (principalmente la Cina e la Russia) e dell’America meridionale stavano “silenziosamente” prendendo misure il cui effetto sarebbe stato quello di “ridimensionare” la potenza nordamericana.

Più recentemente (2007), Luca Lauriola (8) ha sostanzialmente ribadito gli stessi concetti, che qui riportiamo nelle parole di Claudio Mutti: “Lauriola intende dimostrare alcune tesi che possono essere schematicamente riassunte nei termini seguenti: 1) gli USA non sono più la maggiore potenza mondiale; 2) la potenza tecnologica russa supera oggi quella statunitense; 3) l'intesa strategica tra Russia, Cina e India configura un'area geopolitica alternativa a quella statunitense; 4) gli USA si trovano in una gravissima crisi finanziaria ed economica che prelude ad un vero e proprio crollo; 5) in tale situazione, la potenza statunitense è "smarrita e impazzita", sicché Mosca, Pechino e Nuova Delhi la trattano cercando di non provocare reazioni che potrebbero causare catastrofi mondiali; 6) l'amministrazione Bush prosegue imperterrita verso il precipizio, inventando continuamente menzogne che giustifichino la funzione mondiale degli USA; 7) le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; 8) l'immagine odierna degli USA non è un'eccezione della loro storia, ma riproduce fedelmente quella di sempre (dal genocidio dei Pellirosse al terrorismo praticato in Vietnam); 8) negli USA, un ruolo politico eminente viene svolto da quella medesima lobby messianica che aveva primeggiato nella nomenklatura sovietica” (9).

Ma come mai l’iperpotenza statunitense, nel breve volgere di neanche un ventennio, è sul punto di collassare? Perché un attore globale come gli USA non è stato in grado di governare ed imporre il suo tanto declamato “New Order”, democratico e liberista?

Le risposte a tali quesiti non vanno ricercate soltanto nelle, tutto sommato, facili analisi care agli economisti e/o nelle contraddizioni politiche in seno al sistema occidentale. Vanno, a nostro avviso, cercate proprio nell’analisi delle dottrine geopolitiche della potenza statunitense. Gli Stati Uniti d’America — potenza talassocratica mondiale — hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos” (10), vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità di realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale.

Due geopolitici italiani, Agostino Degli Espinosa e Carlo Maria Santoro, in epoche diverse e molto lontane tra loro, rispettivamente negli anni ’30 e ’90, hanno constatato una importante caratteristica degli USA, quella di essere inadatti a governare, ad amministrare.

Scriveva nel lontano 1932 Agostino Degli Espinosa: “L'America non vuole governare, vuole semplicemente possedere nel modo più semplice, ossia con il dominio dei suoi dollari”, e proseguiva affermando che governare “non significa unicamente imporre delle leggi e delle volontà: significa dettare una legge a cui lo spirito del popolo o dei popoli aderisca in modo che fra governo e governati si formi un’unità spirituale organizzata” (11).

Ribadiva, a distanza di oltre sessant’anni, Carlo Maria Santoro: “le potenze marittime […] non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali” (12).

La specificità talassocratica degli USA, individuata da Santoro, e l’incapacità di governare, nel senso sopra magistralmente esposto da Degli Espinosa, spiegano meglio di ogni altra analisi il declino della Potenza nordamericana. A ciò, ovviamente, vanno aggiunti anche gli elementi critici connessi al grado di espansione dell’imperialismo statunitense: dispiegamento militare, spesa pubblica, scarso senso della diplomazia.

Ad affermare l’inettitudine degli USA nel gestire l’attuale momento storico è giunto, recentemente, anche l’economista francese Jacques Sapir. Per il direttore della scuola di Parigi per gli studi delle scienze sociali (EHESS), anzi, già la crisi del 1997-1999 aveva mostrato ”que les Ètats-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays” (13). Ovviamente, per Sapir la mondializzazione è un aspetto dell’espansionismo statunitense, essendo in larga misura l’applicazione della politica americana che egli ritiene essere “una politica volontarista di apertura finanziaria e commerciale” (14). All’epoca, quando le ricette liberiste statunitensi, veicolate attraverso i diktat del Fondo monetario internazionale, fallivano in Indonesia e venivano, a ragione, duramente rifiutate da Kuala Lumpur, fu, significativamente, sottolinea Sapir, la responsabile politica economica adottata da Pechino ad assicurare la stabilità dell’Estremo Oriente.

È interessante notare che l’accelerazione del processo di ridimensionamento economico e politico degli USA (2007-2008) è avvenuto proprio quando alla guida del paese permane una gruppo di potere che si rifà alle idee dei think tank neoconservatori. I neocons, è noto, hanno spinto il più possibile Washington ad attuare negli ultimi anni — a partire almeno dal 1998, anno in cui inizia la “rivoluzione negli affari militari” — una politica estera aggressiva ed espansionista; tale politica è stata condotta in stretta coerenza con i principi veterotestamentari (l’impulso messianico come componente del patriottismo statunitense e come costante del carattere nazionale) che li contraddistinguono e con la particolare declinazione, in senso conservatore, della nota tesi trockista della rivoluzione permanente. Questa tesi, oltre a costituire, per alcuni versi, il sostrato teorico della strategia della “permanent war”, definita dal vice presidente Dick Cheney ed attuata con solerzia dall’Amministrazione Bush nel corso degli ultimi due mandati presidenziali (2000-2008), rinverdisce la caratteristica “geopolitica del caos” di Washington.

America indiolatina ed Eurasia


Se gli USA, stretti tra necessità d’ordine geostrategico (controllo della Russia e della Cina in Eurasia, del Brasile, dell’Argentina e dell’area caraibica nel proprio emisfero) e una profonda crisi economico-finanziaria, sembrano essere confusi ed oscillare tra una politica estera persino più aggressiva e muscolare rispetto al recente passato e un ripensamento realistico del proprio ruolo mondiale, i maggiori paesi eurasiatici, Russia e Cina in testa, ed i più importati paesi sudamericani, Argentina e Brasile, appaiono sempre più consapevoli delle proprie potenzialità economiche, politiche e geostrategiche.

Ciò obbliga gli analisti e i decisori politici ad utilizzare nuovi paradigmi per interpretare il presente. Gli schemi interpretativi del passato, basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia, non sembrano valere più. Sarà bene analizzare il presente, al fine di cogliere gli elementi necessari per delineare i futuri possibili scenari geopolitici, da una prospettiva continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali; in particolare, occorrerà concentrare l’attenzione sugli assi intercontinentali tra i due emisferi del Pianeta.

Il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), il nuovo asse geoeconomico tra l’Eurasia e l’America indiolatina, è ormai una realtà ben definita, capace di attrarre, nel prossimo futuro, altri paesi eurasiatici e sudamericani. Se, nel breve-medio periodo, tale asse si consoliderà, il sogno “occidentalista” inglese di una comunità euroatlantica, dalla Turchia alla California (15), e quello mondialista degli USA, incardinato sulla triade Nordmerica, Europa e Giappone, saranno destinati a rimanere tali.

Il recente vertice dei Ministri degli esteri dei paesi del BRIC (maggio 2008, Ekaterinburg, Russia), che ha confermato l’intenzione dei nuovi paesi emergenti ad intessere ulteriormente le relazioni economiche e politiche, è stato percepito dagli USA come un vero e proprio affronto. A ciò occorre anche aggiungere la riunione dei Big Five (Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa), tenutasi a Sapporo nel luglio del 2008 in concomitanza con il vertice di Hokkaido del G8.

È con l’insediamento di Putin a primo ministro della Federazione russa (agosto 1999) che iniziano ad avviarsi consistenti relazioni economiche tra la Russia e i paesi sudamericani, per poi intensificarsi nel corso degli ultimi anni fino ad assumere una decisa dimensione politica.

Mentre risale all’aprile del 2001 l’interesse della Cina verso l’America meridionale, con la storica visita del presidente Jian Zemin a diverse nazione del subcontinente americano. La Cina, alla ricerca di materie prime e di risorse energetiche per il proprio sviluppo industriale, ritiene il Brasile, il Venezuela ed il Cile partner privilegiati e strategici (si contano, ad oggi, tra i 400 e 500 accordi commerciali tra Pechino, i principali paesi sudamericani e il Messico), tanto da investirvi cospicui capitali per la realizzazione di importanti infrastrutture.

Gli interessi russi e cinesi in America meridionale, dunque, aumentano giorno dopo giorno. Il colosso russo Gazprom (insieme all’italiana ENI) sigla contratti con il Venezuela (settembre 2008) per l’esplorazione delle aree Blanquilla Est e Tortuga, nel Mar dei Caraibi, a circa 120 chilometri a nord dalla città di Puerto la Cruz (Venezuela settentrionale), e Mosca vara un piano per la creazione di un consorzio petrolifero in America meridionale. Inoltre, mentre la Lukoil firma un memorandum d´intesa con la compagnia petrolifera venezuelana, la PDVSA, Chávez si reca a Pechino (settembre 2008) per firmare una ventina di accordi commerciali con Hu Jintao, relativi a forniture agricole, tecnologiche e petrolchimiche e si impegna a fornire 500 mila barili/giorno di petrolio entro il 2010 e 1 milione entro il 2012.

Inoltre, Pechino e Caracas, facendo seguito a intese intercorse nel maggio del 2008, a settembre dello stesso anno, prendono accordi per l'installazione di una raffineria di proprietà comune in Venezuela e per la realizzazione congiunta di una flotta di quattro petroliere giganti e per l'aumento delle spedizioni di petrolio in Cina.

L’America caraibica e meridionale non sembra più essere il “cortile di casa” di Washington. Le preoccupazioni aumentano per Washington, quando il Nicaragua riconosce le repubbliche dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia, quando il Venezuela ospita bombardieri strategici russi a lungo raggio e, soprattutto, quando il processo di integrazione dell’America meridionale viene accelerato dalle strettissime intese tra Buenos Aires e Brasilia. Le relazioni tra i due maggiori paesi del subcontinente americano si sono recentemente (settembre 2008) concretizzate nell’adozione del sistema di pagamento in moneta locale (SML) per l’interscambio economico-commerciale. L’adozione del SML al posto del dollaro statunitense rappresenta un vero e proprio primo passo verso l’integrazione monetaria dell’intera area Mercosur e l’embrionale costituzione di un “polo regionale” che, verosimilmente, grazie soprattutto agli ormai consolidati rapporti con la Russia e la Cina in campo economico e commerciale, potrebbe svilupparsi nel breve volgere di un lustro.
Il nervosismo di Washington sale, inoltre, quando Pechino e Russia espandono la loro influenza in Africa e trattengono rapporti di collaborazione con l’Iran e la Siria.

Tuttavia, oltre i pur importanti e necessari accordi economici, commerciali e politici, affinché il nuovo sistema multipolare possa adeguatamente svilupparsi, i suoi due pilastri, l’Eurasia nell’emisfero nordorientale e l’America indiolatina in quello sudoccidentale, dovranno assumere, necessariamente, il controllo dei propri litorali e contenere le tensioni interne (spesso suscitate artificialmente da Washington e Londra), il loro vero tallone d’Achille.

Infatti, per far fronte agli USA — per trovare, cioè, soluzioni ragionevoli ed equilibrate che ne riducano, a livello planetario, senza ulteriori sconvolgimenti, il grado di perturbazione — Cina e Russia devono considerare che, attualmente, l’ex iperpotenza è, sì, sicuramente una nazione “smarrita”, ma pur sempre un’entità geopolitica dalle dimensioni continentali, padrona dei propri litorali e con ancora una potente flotta navale (16), presente su tutti gli scacchieri del Pianeta. Recentemente, ricordiamo, Washington ha riattivato la Quarta Flotta (per ora costituita da 11 navi, un sommergibile nucleare e una portaerei) per dimostrare, minacciosamente, il proprio impegno presso i loro partner centroamericani e sudamericani. La pur sempre temibile potenza statunitense impone all’Eurasia, principalmente alla Russia che ne costituisce il fulcro, ma anche alla Cina, di attivare una politica di integrazione, o maggiore collaborazione, verso l’area peninsulare ed insulare della massa continentale, cioè verso l’Europa ed il Giappone. È in tale contesto che occorre considerare la nuova politica del presidente Medvedev in relazione al potenziamento delle forze armate russe e, in particolare, al riammodernamento della marina militare (17). Pur se ci troviamo nell’era della cosiddetta “geopolitica dello spazio” e della geostrategia dei missili e degli scudi spaziali, l’elemento navale rappresenta, già da oggi, un importante banco di prova sul quale gli attori globali sono chiamati a sperimentare le proprie strategie per almeno il prossimo decennio, sia nei “mari interni” (Mediterraneo, Nero e Caraibico) sia negli oceani.

Al fine di comprendere appieno le future mosse della potenza d’oltreoceano, Pechino e Mosca farebbero bene a tenere a mente quanto scriveva, anni or sono, Henry Kissinger,: “Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti” (18).

In maniera perfettamente speculare a quello per l’Eurasia, un analogo discorso vale anche per l’America indiolatina. L’America indiolatina — cioè per il momento, il Brasile, l’Argentina ed il Venezuela — è obbligata per evidenti motivi geostrategici, a contenere le tensioni che alimentano l’instabilità di una parte dell’arco andino (19), in particolare quella boliviana, che costituisce il tratto territoriale che collega la costa occidentale a quella orientale del subcontinente americano. Brasilia, Buenos Aires, Santiago e Caracas — se veramente vogliono sottrarsi alla tutela statunitense — dovranno necessariamente incrementare le loro relazioni politiche e militari e porre particolare attenzione al potenziamento delle proprie flotte marine, civili e militari. Le condizioni attuali, grazie all’“amico lontano” rappresentato dalle potenze eurasiatiche, sembrano giocare a loro favore. Le condizioni attuali, è doveroso dirlo, giocano a favore anche dell’Europa e del Giappone.

Per l’equilibrio del Pianeta, tuttavia, c’è solo da sperare che gli USA prendano ragionevolmente atto del loro ridimensionamento, e non perseguano, quindi, insensate strategie di rivincita.


Note
1. L’odierna crisi economico-finanziaria risale, secondo alcuni specialisti, tra cui Jacques Sapir, a quella del triennio 1997-1999. Jacques Sapir, Le nouveau XXI siècle. Du siècle «américaine» au retour des nations, Seuil, Paris 2008, p.11. Ricordiamo che gli USA, dal 1992 al 1997, nella convinzione di essere ormai l’unica potenza mondiale, veicolarono, a sostegno della loro strategia di dominio mondiale, una “campagna ideologica volta ad aprire le economie del mondo al libero commercio e al libero movimento dei capitali su scala globale” (Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001, p. 290).
2. Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001, ediz. orig. Blowback, The Costs and Consequences of American Empire, Little Brown and Company, London 2000.
3. Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, Paris 2002. Ed. italiana, Dopo l’impero, Tropea, Milano 2003.
4. Chalmer Johnson, op. cit., p. 59.
5. Chalmer Johnson, op. cit., p. 58.
6. “Il sistema internazionale va disgregandosi non solo perché nuove potenze aggressive dotate di scarso senso dell’equilibrio cercano di dominare i paesi confinanti, ma anche perché le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace”, David. P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142, citazione tratta da Chalmer Johnson, op. cit., p. 312.
7. Michael Lind, How the U.S. Became the World's Dispensable Nation in “Financial Times”, 26 gennaio 2005.
8. Luca Lauriola, Scacco matto all'America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.
9. Claudio Mutti, Recensione a L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, www.eurasia-org, 27 gennaio 2008.
10. Tiberio Graziani, Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 4/2007, p. 7.
11. Agostino Degli Espinosa, Imperialismo USA, Augustea, Roma-Milano 1932-X, p.521.
12. Carlo Maria Santoro, Studi di Geopolitica, G. Giappichelli, Milano 1997, p. 84.
13. Jacques Sapir, op. cit., pp. 11-12.
14. Jacques Sapir, op. cit., pp. 63-64.
15. Sergio Romano, in merito alla politica inglese antieuropea, così rispondeva a due lettori del quotidiano “Corriere della sera”: “L' obiettivo inglese è una grande comunità atlantica, dalla Turchia alla California, di cui Londra, beninteso, sarebbe il perno e la cerniera”, Sergio Romano, Perché è difficile fare l' Europa con la Gran Bretagna, Corriere della sera, 12 giugno 2005, p. 39.
16. Riporta Alessandro Lattazione che “la flotta USA, dieci anni fa, possedeva 14 portaerei e relativi gruppi di battaglia. Oggi ne ha, sulla carta, 10 ma solo 5/6 sono operative”. Alessandro Lattanzio, La guerra è finita?, relazione presentata al FestivalStoria, Torino, 16 ottobre 2008.
17. Alessandro Lattanzio, Il rilancio navale della Russia, www.eurasia-rivista.org, 1 ottobre 2008.
18. Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634-635.
19. Come noto, gli analisti suddividono l’America meridionale in due archi: l’arco andino, costituito da Venezuela, Colombia, Ecuador, Perú, Bolivia, Paraguay e l’arco atlantico, costituito da Brasile, Uruguay, Argentina e Cile.

mercredi, 17 décembre 2008

100 anos de imperialismo norteamericano

100 anos de imperialismo norteamericano

El accionar del imperialismo en Venezuela, América y el tercer mundo comienza desde el siglo XV cuando fuimos colonizados por los europeos y pasamos a formar parte de la periferia del capitalismo mundial como suministradores de materia prima. A pesar de los procesos de independencia no hay la menor duda de que continuamos en la órbita de dependencia y de neocoloniales con respecto a los principales centros hegemónicos del capitalismo en el siglo XIX, en lo económico con respecto a Inglaterra y en segundo plano con Alemania y en lo político y cultural con respecto a España y en mayor grado con respecto a Francia. Desde los primeros bancos e industrias, pasando por líneas férreas y navieras, empresas de servicio y de comercio eran capitales fundamentalmente ingleses y alemanes. Igualmente los políticos e intelectuales que hicieron posible las nuevas repúblicas lo hicieron trasladando las principales constituciones, formas de gobiernos y universidades provenientes de la Europa Occidental. Pero desde finales del siglo XIX surge el Imperio Norteamericano con su expansión sobre el territorio cubano y puertorriqueño a partir de la guerra con España de 1898. Ya antes, desde apenas la cuarta década del siglo pasado Estado Unidos se había apropiado de buena parte del territorio mexicano.

El término que mejor define la política exterior norteamericana es la agresión, desde su nacimiento como país soberano (1776) ha demostrado una profunda vocación expansionista, evidenciada durante los gobiernos de Tomás Jefferson, pero que tendría una mayor definición en la presidencia de James Monroe con su famosa doctrina “América para los Americanos”, o lo que es mejor decir “América para los norteamericanos”. Si bien el siglo XIX es tiempo de consolidación de la economía norteamericana y de su política interna (guerra de secesión, 1861 - 65), esto no los aisló de su ideal expansionista, que ya se había manifestado sobre Luisiana y la Florida, pero que se profundiza con la anexión de los hasta entonces estados mexicanos de Texas y California (ricos en minerales como el petróleo).

Fue nuestro Simón Bolívar quien con mayor visión se percató de esta agresiva política exterior norteamericana, puesta de manifiesto fundamentalmente en los preparativos del Congreso de Panamá en 1826, con la idea de consolidar la integración de los países recién liberados del dominio español sin involucrar a los EEUU en dicho Congreso. El boicot norteamericano estuvo claramente presente en la derrota de este plan integracionista latinoamericano. En 1829 es aún más clara la percepción de Bolívar sobre el país del norte cuando señalo: “Los Estados Unidos parecen destinados por la providencia a plagar a la América de hambre y miseria en nombre de la libertad” Precisamente la mayor desviación de este proyecto fue la constitución del Panamericanismo en 1890.

Las mayores muestras de agresiones continuas y de carácter brutal por parte del gobierno norteamericano se producen desde 1898 con la guerra contra España, cuando los Estados Unidos se posesionan de los codiciados territorio Cuba, Puerto Rico, Filipinas y Wuam comenzando así su expansión extracontinental, sobre todo su interés en la “apertura” comercial Asiática. Luego vendría la política del “Gran Garrote” de Teodoro Roosvelt (1901 - 1909) y la historia de las invasiones en Cuba, Panamá, Honduras, Haití, Nicaragua, Santo Domingo, separación de Panamá de Colombia, agresiones que solo fueron disminuidas con el crac económico de los años 30. Al tiempo que se producían intervenciones militares, los Estados Unidos habían consolidado su poder económico sobre la zona: el poder del dólar. En aquellos países donde no intervino militarmente (como Venezuela); brindó “apoyo” a los gobiernos que representaban seguridad para sus inversiones.

Tanto la crisis económica de los años 30 como el enfrentamiento al nazifacismo (1933 - 45) hicieron replegar la política intervencionista norteamericana, pero el comienzo de la Guerra Fría permitió a los Estados Unidos consolidar su presencia en regiones hasta entonces inaccesibles, como las zonas petroleras del Medio Oriente. El dominio económico de los Estados Unidos se expande por todo el mundo, sus capitales y compañías levantan a Europa y Asia destruidas por la guerra y penetran en los países subdesarrollados, ya no sólo en los de América Latina. Pero la expansión económica y política norteamericana se vio frenada por el auge del socialismo que dominaba ya no solo en Europa del Este, sino también en la China, Yugoslavia y fue expandiendo su órbita sobre pequeñas naciones que habían sido víctimas de los grandes imperios occidentales.

Al tiempo que los Estados Unidos expandían sus políticas a través de la utilización de organismos internacionales aparentemente neutrales (FMI, BM, OEA, TIAR, OTAN, ONU) que han representado históricamente sus intereses, se inició una política internacional de favorecer a los “gobiernos fuertes” de marcada tendencia anticomunista, manifiesta en el auge de los gobiernos dictatoriales no sólo en América Latina (1948 - 57) sino en el resto del tercer mundo: Invade Guatemala en 1954 y 1965, presiona contra la revolución Boliviana de 1952, así como se involucra en la caída de Perón en Argentina y Vargas en Brasil, de Medina y luego Rómulo Gallegos en Venezuela, interviene en los conflictos de Corea y de Vietnam donde es, por primera vez en su historia, aplastantemente derrotado.

En el Medio Oriente, hasta 1951, en el único país donde los EEUU no tenían participación era Irán, controlado cien por ciento por los ingleses. Después de la Segunda Guerra Mundial, además del debilitamiento inglés, existen otros factores por lo cual el Medio Oriente se convierte en determinante en la política exterior norteamericana; primero, en su política de defensa ante la amenaza de expansión del comunismo, para lo cual se lanza la “Doctrina Truman”, segundo, por la situación de dependencia en la que se coloca EEUU a partir del año en que se convierte en principal importador de petróleo, situación que aumenta el peso de los EEUU, la población de origen judío fue lo que justificó su decidido apoyo a la creación y mantenimiento del Estado de Israel. En pro de estos intereses los EEUU llegaron hasta intervenir militarmente cuando consideraron algún peligro: Así dieron su aprobación al desplazamiento violento de los palestinos de sus territorios, en 1949 intervienen directamente en un golpe de Estado contra Siria y junto a Inglaterra contra el Líbano y Jordania, en 1958, motivados por el miedo a las repercusiones en esos países de la revolución iraquí. Pero su acción militar más importante fue el derrumbamiento de Mossadeh en Irán en 1954, donde la participación de la CIA fue decisiva. En 1955, en el contexto de la guerra fría, Inglaterra y EEUU establecen el acuerdo de Bagdad, acuerdo militar de la región para la “mutua defensa” ante posibles agresiones, era una extensión más de la OTAN, como lo fue el TIAR en América Latina para enfrentar el comunismo y a los movimientos nacionalistas.

Regresando a Latinoamérica, desde 1959 con la revolución cubana surge lo que desde entonces ha sido el obstáculo más grande en la política exterior norteamericana en sus relaciones con la región. El comunismo en su propio continente, en un territorio que al igual que Puerto Rico habían considerado de su dominio natural. Además, junto a la revolución cubana se había producido el auge de los movimientos insubordinados en muchos países de América Latina. Todo esto se producía, además, en el comienzo de una profunda recesión de las economías hegemónicas capitalistas aunado a la crisis energética de los 70, que a su vez generó una profundización de los movimientos nacionalistas y tercermundistas a escala mundial a los que tuvo que enfrentar la “diplomacia” norteamericana. Esta política norteamericana contribuyó, en buena parte, al retorno de las dictaduras cuya agresividad más palpable ocurrió en Chile con la caída del gobierno socialista de Allende. 1979 es un año realmente terrible para la política exterior norteamericana, cuando se producen revoluciones socialistas en Granada y Nicaragua, así como la revolución islámica y la caída del Sha en Irán, país que había sido uno de los principales aliados norteamericano en el Medio Oriente.

Al contrario de lo que muchos ingenuamente pensaban, las guerras y cualquier manifestación de violencia no han sido socavadas después del fin de la guerra fría. Por el contrario hay quienes opinan que existía mayor grado de “estabilidad política” cuando prevalecían los dos grandes bloques del occidente capitalista Vs. el oriente comunista. Hoy hasta quienes celebraron la caída de la Unión Soviética y el auge del proceso globalizador están reflexionando sobre las consecuencias de estos sucesos y sus repercusiones en el mundo actual. Los cambios ocurridos con el derrumbamiento soviético; el fin de la Guerra Fría posibilitó el surgimiento de los Estados Unidos como máxima potencia mundial. Ante el debilitamiento soviético los Estados Unidos intervienen militarmente y derrumban el gobierno socialista de Granada (1987) y luego el derrocamiento del presidente de Panamá Manuel Noriega en 1989, que estaba claramente influido por la resistencia - aun latente- de entregar el canal en 1999 y luego su participación fue evidente en el desplazamiento de los Sandinistas de Nicaragua. Como habíamos señalado en la primera parte, la última intervención militar en América se había producido contra Guatemala en 1965, luego vendría el fracaso aplastante de Vietnam. En estos años la política exterior norteamericana se hiso muy pragmática, salvo en el caso cubano, los intereses políticos pasaron a un segundo plano, a pesar de la permanencia del comunismo en China se silenciaron los ataques contra este país y por el contrario se profundizó las relaciones económicas. En el caso de Rusia no hay la menor duda que la reelección de Yelsin, frente a la amenaza que representaban los comunistas y los ultra nacionalistas, tuvo en el apoyo norteamericano un importante aval. Los Estados Unidos ahora jerarquizan sus intervenciones en aquellas regiones o naciones que representan un significativo interés.

La primera invasión sobre Iraq (1991) se encierra en el contexto que hemos señalado, las agresiones norteamericanas hacia esa nación hubieran sido imposibles con la existencia de la URSS, también sería ingenuo pensar que las mismas tuvieron como causa la defensa de la democracia y la soberanía de Kuwait - que nunca las ha tenido- o la defensa de las minorías étnicas, como los kurdos, cuyo problema, por cierto, fue creado por los propios países occidentales y que hoy no solamente atañen a Irak. Tan ingenuo es convertir a Hussein en un Satán como hacerlo un héroe, eso no es lo que nos debe interesar, pero lo cierto es que es una lucha en extremo desigual que solo pretendía garantizar el control norteamericano sobre el 70% de las reservas petroleras del mundo ubicadas en el Medio Oriente. Los gobiernos de Kuwait y Arabia Saudita e Israel le son ya incondicionales a EEUU pero no así el resto de la región.

La Paz Americana que se quiso imponer en la región, ha sido debilitada fundamentalmente por el antiarabismo de Israel, pero más aún por la profundización de los movimientos nacionalistas y concretamente del fundamentalismo islámico, que amenazan con convertirse en el obstáculo mayor de tan añorada globalización. Las agresiones a Irak, el intento de bloquear a Irán y Libia (Ley de Amato), no son solo medidas coyunturales con intereses electorales, esto va mucho más allá, los Estados Unidos se han percatado del inminente peligro que representa la inestabilidad de esta zona para su futuro. La adversidad de esta región hacia occidente está siendo alimentada tanto por la intolerancia de Israel como la de los EEUU.

En el contexto de una supuesta globalización es la imposición y la intolerancia lo que predomina, para ello los EEUU utilizan a los organismos internacionales, aparentemente “neutrales”, para enmascarar sus propios intereses, como si hubieran sido hechos bajo el consenso de todas las naciones del mundo y para el bienestar general. Se imponen modelos de economías abiertas cuando ellos aplican el proteccionismo, hablan de un mundo entre iguales y de democracias liberales cuando rechazan al inmigrante del sur, intervienen directamente en los problemas internos de otras naciones y apoyan gobiernos dictatoriales pero con economías de mercado.

Así tenemos que frente al tratado de libre comercio con México, su población es cada vez más rechazada en territorio norteamericano. En Colombia, ante una aparente lucha contra las drogas, ha intervenido directamente en la política interna de ese país, cuando todos sabemos que la principal causa del crecimiento del comercio de la droga está en el creciente consumo de los países desarrollados, especialmente el norteamericano. Los EEUU no intervinieron directamente en la desintegración y matanza de los pobladores de la exyugoslavia, cuya desintegración le es más bien favorable, no lo hicieron frente al apartheid sudafricano, en las matanzas en Ruanda, Somalia, tampoco ante las cruentas dictaduras de Pinochet en Chile o la de Corea del Sur, las cuales por el contrario se convirtieron en importantes socios económicos para EEUU.

En relación a Cuba, los EEUU vienen cometiendo - a nuestro modo de ver- sus más grave error (junto a los del Medio Oriente) no solo por la injusta profundización del bloqueo con la Ley Helms - Burton, sino que es tanto la intolerancia demostrada y la prepotencia al tratar de imponer una legislación a todo el mundo, que le ha producido un bumerang político, al ser rechazado a nivel internacional y producir por efectos indirectos un sentimiento de solidaridad hacia la nación cubana, al tiempo que ha despertado sentimientos de aversión hacia el gobierno norteamericano. Igualmente esta ocurriendo con las continuas agresiones hacia Irak, que han producido todo tipo de reacción adversa.

En 1997, luego de una profunda indiferencia en su primer periodo gubernamental el presidente Clinton realizó una visita a Latinoamérica para tratar de reconquistar espacios perdidos, no solamente en nuestro continente sino en todo el mundo la política exterior norteamericana manifiesta preocupación por el avance geopolítico de Europa (especialmente Francia) y la expansión económica de Asia. Concretamente en Venezuela llego a bendecir la política económica de Caldera y Teodoro Petkoff de “La Agenda Venezuela “y sobretodo la plena apertura (mejor decir entrega) petrolera.

El gobierno de George Bush ha sido de los más violentos y agresivos en su política exterior y mayor expresión de frustración al tratar de imponer su política hegemónica al resto del mundo. A partir de los ataques del 11 de septiembre del 2001, esta lamentable y condenable acción sirvió como pretexto para arremeter una política armamentista contra todos los posibles enemigos, rivales o elementos que causen molestias al gobierno norteamericano y sus principales aliados. En efecto, días después de la tragedia George Bush, sin haber demostrado las pruebas de responsabilidad de Bin Laden y al-qaeda en dichos actos, publicó una lista de supuestos cómplices y de los países “propulsores del mal”, donde lógicamente no podían dejar de aparecer los tradicionales enemigos: Kadafy en Libia, los fundamentalistas de Irán, los palestinos, Hussein en Irak, Fidel en Cuba y las FARC de Colombia, entre otros. Así mismo, inmediatamente salieron otros países como el caso de Inglaterra, España e Israel a apoyar esta iniciativa, dando su respaldo a que en la misma lista estuvieran los irlandeses de IRA, la ETA española y los palestinos de Hamas. Como se puede percibir ya el enemigo no tiene cara comunista, ya no es la Unión Soviética ni la Europa del Este, el enemigo cada vez se parece más a los países pobres del Tercer Mundo. Como bien lo dijo el exsecretario general de las Naciones Unidas, Boutros Ghali (cuya posición le costó la reelección) después de la caída del Muro de Berlín; se desdibujaba la frontera entre el este y el oeste pero surgía otra mas profunda entre el norte y el sur.

En lo inmediato pudimos presenciar la declaración de una guerra hacia un país, Afganistán, a cuyo gobierno -talibanes- se acuso de ser protectores de la organización al-qaeda liderizada por Osama Bin Laden, al cual se atañe la responsabilidad de los sucesos del once de septiembre, luego vino la invasión a Irak. En el 2003 la invasión a Irak, bajo el pretexto del incumplimiento de la disminución armamentista y el impedir la vigilancia permanente de la ONU, es la continuación de la guerra iniciada en 1991 por George Bush padre, quien por temor a causar una guerra civil en Irak no logró el objetivo final de liquidar al incomodo mandatario Iraquí. Tampoco tenemos la menor duda en señalar que si no fuera ese país uno de los principales productores de petróleo del mundo y la región del Medio Oriente poseedora del 80 % de las reservas mundiales, el interés no sería el mismo, nadie hablaría de democracia ni de fundamentalismo, lo mismo que ocurrió con países como Somalia y Ruanda cuya espantosa guerra para nada interesó a las grandes potencias del mundo. También estamos conscientes de que el problema no es solo petrolero, que ya es bastante, sino que se le teme al liderazgo que este país junto a Irán ejerce en la región, tanto en el mundo árabe como en la religión islámica, que se han convertido en el mas fuerte rival cultural y político; obstáculo para la expansión económica en esta importante región.

Pero la guerra contra Irak y todos los supuestos terroristas mundiales no solo sirven para sacar del camino los viejos enemigos, a los estorbos del mundo, sino que además representa un excelente negocio para quienes viven de la guerra, fundamentalmente los países desarrollados que son los principales productores armamentista del mundo, quienes venden unos 750 mil millones de dólares en este sector, y que son a su vez los mayores violadores de los acuerdos de disminución de armamentos. También la guerra sirve para obviar la preocupación de los ciudadanos norteamericanos (quienes en su mayoría rechazan esta contienda) de los graves problemas económicos del país y la poca popularidad de Bush. Así mismo, Bush hijo, salvo heredar la agresividad republicana de su padre, ha demostrado desde la campaña electoral (que por votos perdió ante Al Gore, pero que sin embargo la naturaleza de la democracia norteamericana le dio el triunfo.) es un desconocedor de la realidad mundial. El intelectual mexicano Carlos Fuentes, uno de los más brillantes de América Latina, lo ha acusado en varias oportunidades de “Ignorante y estúpido”.

Contrariamente al discurso de campaña Bush , quien dijo en el 2000 que América Latina sería “un compromiso fundamental de su presidencia”, y de su proclamación junto con otros líderes hemisféricos en abril del 2001 de que éste era “el siglo de las Américas”, su gobierno no hizo nada o muy poco por enmendar errores del pasado y mucho menos cumplir con las promesas de anteriores mandatarios, como lo de condonar parte de la deuda externa, dar trato preferencial a nuestros productos. Por el contrario después de los sucesos de septiembre del 2001 centró sus intereses en el Medio Oriente y hacia Latinoamérica apuntalo solo hacia profundizar sus ataques a Cuba, incentivar el Plan Colombia contra los movimientos insurgentes y crear mayores obstáculos a la migración latina, caso dantesco con el nuevo muro entre ese país y México.

Es ahora cuando percibe como-a diferencia de lo que se pensaba hace apenas pocos años- la población latinoamericana rechaza cada vez más la política unipolar y hegemónica de los EE.UU., y ha castigado en rebeldía y en las urnas electorales los gobiernos lacayos del imperialismo. Al contrario de lo que se pensaba, después del derrumbe soviético, América latina se ha convertido en escenario fundamental de nuevos proyectos políticos y económicos, frente al neoliberalismo impulsado principalmente por la potencia del Norte.

En América latina se debate libre y plenamente sobre la posibilidad de un nuevo orden social para la región y el mundo. Cuba ya no es la excepción, Nicaragua, Ecuador, Bolivia, Venezuela, apuestan francamente contra el capitalismo y en pro del socialismo. Pero en Brasil, Argentina, Chile, Uruguay, Perú, México, Guatemala y en casi toda la región pueblos enteros han demostrado que no son simples minorías, y que a pesar de lo moderado de sus gobiernos, los pueblos rechazan el imperialismo y buscan otros caminos en su proceso de liberación. Bush en un intento desesperado de obstaculizar los avances de Venezuela y de la revolución latinoamericana realizó en el 2007 una visita a cinco naciones (Brasil, Uruguay, Colombia, Guatemala y México) entre el 8 y el 14 de marzo, pero nada consiguió, aunque ofreció acuerdos económicos que satisfagan a las oligarquías y a los lacayos políticos este proceso es irreversible no solo en América sino en el mundo entero, guste o no el capitalismo y su manifestación imperialista tiene el tiempo contado, ya no será posible con bayonetas acallar a los pueblos, ni invadiendo a todo el mundo podrán detener el camino que los pueblos se han trazado: un mundo mas humano, un mundo sin dueños, un mundo de todos.

Pedro Rodríguez Rojas

Extraído de Rebelión a través de la LBN

mercredi, 10 décembre 2008

Sobre las maniobras militares venezolano-rusas

¿Qué significado simbólico tienen las maniobras militares venezolano-rusas?

Las maniobras militares conjuntas de tres días realizadas por Venezuela y Rusia en el mar Caribe terminaron el día 3. Se trata de la primera presencia de la Armada Rusa en el Caribe después de terminada la Guerra Fría.

Estas maniobras, codificadas como “Venezuela-Rusia 2008”, se realizaron dentro de la Zona Económica Exclusiva de Venezuela. El día primero, Venezuela y Rusia enviaron un total de cinco buques, entre ellos, el crucero misilero nuclear “Pedro el Grande” y el gran buque antisubmarino “Almirante Chapanenko” de Rusia. Las maniobras de ese día constituyeron el contenido principal de las maniobras militares de ambos países. Con el crucero misilero nuclear “Pedro el Grande” como buque insignia, se llevaron a cabo ejercicios de coordinación para la “defensa común”. Las maniobras de ese día duraron nueve horas, con la participación de 1.600 rusos y 700 venezolanos.


En el curso de los tres días, las armadas venezolana y rusa realizaron ejercicios antiaéreos, de abastecimiento de combustible, de seguimiento de buques de guerra, de combate coordinado con helicópteros y aviones de combate así como maniobras tácticas antiterroristas y contra narcotraficantes. Luis Márquez Márquez, comandante de operaciones de la Armada Venezolana, dijo que a través de las maniobras, la Armada Venezolana aprendió de la contraparte rusa conocimientos sobre el sistema de comunicación y manejo de armas, aumentando así su capacidad defensiva.

A estas maniobras les han dado importancia altos dirigentes de las partes venezolana y rusa. El 27 de noviembre, el presidente venezolano Hugo Chávez y el visitante presidente ruso Dmitry Medevedev inspeccionaron el gran buque antisubmarino “Almirante Chapanenko” anclado en el puerto septentrional venezolano de La Guaira. Los mandatarios de ambos países visitaron las instalaciones internas y externas del buque, Medevedev explicó a Chávez los armamentos del mismo y los dos escucharon una presentación sobre las maniobras conjuntas por efectuar.

Chávez, siempre con una posición claramente anti-EEUU, mostró en esta ocasión una actitud muy prudente. Reiteró que las maniobras conjuntas tenían una “misión de paz” en lugar de desafiar a Estados Unidos. Medevedev dijo por su parte que Venezuela es uno de los socios más importantes de Rusia en América Latina y que ambos países abogan por un mundo multipolar y por respetar la soberanía nacional y los legítimos derechos de los pueblos. Rusia y Venezuela, apuntó, continuarán desarrollando su cooperación militar, la cual se mantendrá transparente observando estrictamente el derecho internacional y dentro de la esfera permisible.

Un analista señaló que el que Rusia persistiera en realizar maniobras conjuntas con Venezuela en el “patrio trasero” de los Estados Unidos muestra que Rusia hizo una respuesta directa al comportamiento de EEUU que despliega sistema antimisil en Europa Oriental y mantiene a los gobiernos anti-Rusia en sus alrededores. Pero el significado simbólico de estas maniobras conjuntas es obvio y muestra que acaba de empezar la cooperación militar venezolano-rusa.

Estados Unidos siguió de cerca estas maniobras militares, pero sostuvo que no constituyen una amenaza esencial para él. Sean McComarck, portavoz del Departamento de Estado de EEUU, manifestó: “Las maniobras militares de Venezuela y Rusia no constituyen un problema, pero las seguiremos de cerca.” Condoleezza Rice, secretaria de Estado norteamericana, dijo el 26 de noviembre que al entrar la flota rusa en aguas jurisdiccionales de Venezuela, no ha cambiado la posición ventajosa que mantiene Estados Unidos en el hemisferio occidental.

No obstante, con respecto a la acción rusa de vender armas a Venezuela, EEUU ya mostró cierta preocupación. Según se informó, el gobierno de Chávez ha firmado en los últimos años contratos de compra de armas por un monto de 4.400 millones de dólares. Rusia llegó hasta prestar mil millones de dólares a Venezuela, dejándole comprar a Rusia misiles antiaéreos “Tor-M1” y aviones cisterna “IL-78”. Venezuela también se propone comprar de Rusia transportes blindados y helicópteros artillados.

Según informaron medios de comunicación venezolanos, después de estas maniobras militares, Venezuela y Rusia mantendrán su intención para una ulterior cooperación militar. La Armada Rusa ha invitado a una flota de la Marina de Guerra venezolana a visitar Rusia, de manera que ambas partes efectuarán una serie de ítems de cooperación militar en el Mar del Norte. Venezuela ya ha llegado a ser un importante socio de cooperación en la estrategia global de Rusia.

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jeudi, 27 novembre 2008

Medvedev à la conquête de l'Amérique latine

Medvedev à la conquête de l'Amérique latine

Version imprimée

Par Andreï Fediachine, RIA Novosti

Dmitri Medvedev a quitté le sommet de l'APEC, organisé les 22 et 23 novembre dans la capitale péruvienne, pour revenir ensuite à Lima en visite officielle le 24 novembre. Pour le président russe, la rencontre avec les leaders du forum de coopération économique Asie-Pacifique s'est muée, tout naturellement, en sa première tournée latino-américaine. Du 24 au 28 novembre, il visitera le Pérou, le Brésil, le Venezuela et Cuba. Les voyages dans ces pays seront pour lui plus importants que le forum de l'APEC, car, aussi respectable que soit cette réunion, elle n'est qu'un club de discussion. Ses membres ne sont pas liés par des engagements ou statuts, ni même par la nécessité d'appliquer les déclarations qu'ils approuvent par consensus: tout ce qui se fait dans le cadre de l'APEC repose sur le principe du volontariat.

Le forum actuel a suivi le récent sommet du G20 à Washington et en a, bien entendu, pris le relais. La rencontre de Lima avait ceci de particulier qu'elle a adopté deux déclarations au lieu d'une. En supplément à la Déclaration politique de Lima, les participants ont approuvé une déclaration économique spéciale. Celle-ci comporte des engagements en 12 points. Tout le monde a soutenu, en principe, les dispositions approuvées à Washington il y a une semaine. Dix des 21 membres de l'APEC font partie du G20, et ils ont donc tout simplement réaffirmé leur approbation. Rappelons que l'APEC, créé en 1989, regroupe la Russie (depuis 1999), l'Australie, Brunei, le Vietnam, Hong Kong, l'Indonésie, le Canada, la Chine, la Malaisie, le Mexique, la Nouvelle-Zélande, la Papouasie-Nouvelle-Guinée, le Pérou, Singapour, les Etats-Unis, la Thaïlande, Taïwan, les Philippines, le Chili, la Corée du Sud et le Japon. En 2012, le sommet de l'APEC devrait se tenir en Russie, dans l'île Rousski, non loin de Vladivostok.

Les participants à la rencontre de Lima se sont engagés à promouvoir la libéralisation du commerce, à intensifier le Round de Doha des négociations commerciales au sein de l'OMC, à augmenter le montant des versements au Fonds monétaire international, à lutter contre la crise globale, à intensifier la lutte contre le dernier des "nouveaux maux", à savoir la piraterie maritime. Parmi les mesures concrètes, on peut citer la décision de suspendre l'introduction de nouvelles normes protectionnistes au cours des douze mois à venir. D'ailleurs, les normes existantes sont déjà très nombreuses. En ce qui concerne le Round de Doha, qui piétine depuis déjà sept ans, lors de chaque sommet annuel, depuis 2003, l'APEC s'engage à le promouvoir. Pour l'instant, ces engagements n'ont rien donné.

La Déclaration finale de Lima affirme que la crise actuelle sera définitivement surmontée dans 18 mois. On dit que cette formule a été introduite dans le document sur les instances du président péruvien, Alan Garcia. Celui-ci se trouve dans une situation relativement compliquée, liée à l'actuelle crise économique. Les flambées des prix, l'inflation galopante, la pauvreté, le mécontentement face à l'extravagance de Garcia ne font que s'accroître dans le pays. Sa cote de popularité est passée sous la barre des 19% critiques. Il a donc besoin d'enregistrer des succès sur le front économique, et la fixation des délais de règlement de la crise conviennent parfaitement. Garcia souhaite être réélu au poste de président. Il appartient au "parti" de centre-gauche des leaders latino-américains contemporains, qui constituent la majorité en Amérique latine. A l'exception de la Colombie, tous les Etats de la région ont des présidents et premiers ministres de gauche, ou sympathisants de la gauche. Mais quelles que soient ses options politiques, Alan Garcia a réussi à se brouiller tant avec le fougueux Vénézuélien Hugo Chavez qu'avec le président bolivien Evo Morales.

La Russie maintient, depuis la fin des années 1970, de très bonnes relations avec le Pérou, quel que soit le dirigeant de ce pays. Un grand nombre de Péruviens continuent de venir en Russie pour y recevoir une formation; l'armée péruvienne utilise des armements soviétiques et des hélicoptères russes. La coopération militaire technique avec Lima sera poursuivie. La Russie est tout prête à coopérer avec ce pays dans la prospection et la mise en valeur de gisements pétroliers au Pérou.

En fait, l'odeur du pétrole et du gaz a accompagné la tournée du président russe. Le Brésil n'a pas fait exception. Cet Etat, qui fait partie du BRIC et qui est considéré comme un "continent à part", ne peut pas laisser indifférente la Russie, d'autant que Moscou est disposé à étendre les liens bilatéraux. Le déplacement de Medvedev au quartier général de la plus grande compagnie pétrolière publique du pays, Petrobras, sera l'un des plus importants événements de sa visite, de même que ses rencontres avec les dirigeants des entreprises publiques et privées spécialisées dans l'énergie, l'industrie minière, le secteur agroindustriel et la sphère bancaire. Gazprom inaugurera l'année prochaine sa représentation au Brésil. Moscou et Brasilia seraient prêts à élargir leur coopération dans le domaine spatial et pourraient construire conjointement un cosmodrome à proximité de l'équateur.

Le Venezuela, quant à lui, est "le premier parmi les égaux". Moscou a établi une "coopération stratégique" avec Hugo Chavez. Les deux pays créent une banque commune avec un capital de 4 milliards de dollars pour financer la construction de raffineries de pétrole. La Russie est prête à aider le Venezuela à créer des centrales nucléaires, Rusal a annoncé la construction d'une usine d'aluminium, VAZ est prêt à y implanter des usines automobiles. Depuis 2005, Caracas a signé avec Moscou douze contrats sur les livraisons d'armes, allant des fusils d'assaut Kalachnikov, des chars T-90 et des voitures de transport blindées aux chasseurs Su et aux hélicoptères, pour un montant total de 4 milliards de dollars. A présent, il souhaite acheter des sous-marins et des navires russes. Dmitri Medvedev et Hugo Chavez "inaugurent", le 25 novembre, les premiers exercices navals russo-vénézuéliens de grande envergure qui "taquineront" les Etats-Unis jusqu'au 30 novembre.

Cuba devait absolument figurer sur la liste medvédévienne des pays à visiter. Les relations entre Moscou et La Havane semblent connaître un essor. Les négociations à Cuba devraient aboutir à une entente sur la prospection et la mise en valeur conjointes de gisements pétroliers dans la partie cubaine du golfe du Mexique. Un forage d'essai vient d'y être organisé.

Le voyage de Medvedev illustre bien l'évolution du processus de désidéologisation des relations entre la Russie et l'Amérique latine. Celles-ci étaient déjà marquées auparavant par un puissant élément national-pragmatique (les Russes ont, en effet, fait de la voiture soviétique Lada l'automobile la plus vendue au Chili à l'époque de Pinochet). A présent, cet élément national-pragmatique se renforce. On peut à cet égard remercier George W. Bush.

Bush a lui aussi "désidéologisé" les relations avec l'Amérique latine, mais en poussant cette désidéologisation a fond. En huit ans de présidence de Bush, pratiquement tous les pays situés au sud du canal de Panama, excepté peut-être le Mexique, ont été quasiment délaissés. Ceux qui, à Washington, cherchent à intimider les Américains en leur montrant que la Russie "s'implante activement sur le continent, oublient que les Etats-Unis ont longtemps soutenu toutes les dictatures d'Amérique du Sud, avant de se mettre à négliger sa "basse-cour". Or, les Latino-Américains ont invité eux-mêmes la Russie à coopérer, et celle-ci n'a pas eu besoin de beaucoup s'agiter pour cela. Mais il serait erroné de se laisser bercer d'illusions quant au "créneau latino-américain" de la Russie. Les Etats-Unis ne s'en retireront pas et y rétabliront leur influence et leurs liens, qui se sont rétrécis comme une peau de chagrin à l'époque de Bush. Le grand rétablissement pourrait se produire pendant la présidence de Barack Obama, mais personne ne saurait prédire à quelle date. En attendant, parmi les priorités d'Obama on trouve la crise économique et les guerres en Irak et en Afghanistan. Le retour des Etats-Unis dans sa "basse-cour" risque de prendre un certain temps.

Les opinions exprimées dans cet article sont laissées à la stricte responsabilité de l'auteur.

Medwedew fischt in US-Gewässern

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Medwedew fischt in US-Gewässern

Aufzählung Militärhilfe für Lateinamerika.

Moskau/Lima. (is) Mit dem Zusammenbruch der Sowjetunion brach auch Moskaus Einfluss in Lateinamerika weg. Nun macht sich das wiedererstarkte Russland daran, im "Hinterhof" der USA erneut Fuß zu fassen. Vor allem die Militärkooperation wird intensiviert. Der Moment sei gekommen, um die "machtvollen Beziehungen von einst wiederherzustellen", verkündete Präsident Dmitri Medwedew zum Auftakt seiner Lateinamerika-Tour.

Erste Station war Peru, wo er am Rande des Apec-Gipfels den Ausbau der Zusammenarbeit beider Länder in Rüstungsfragen vereinbarte. Danach reiste der Kreml-Chef nach Brasilien weiter. Anschließend stehen bis Donnerstag Besuche bei den engsten Verbündeten Venezuela und Kuba auf dem Programm.

In den USA betrachtet man die Charmeoffensive der Ex-Weltmacht mit Skepsis, fordert diese doch Washingtons Einfluss in der Region heraus. Doch genau darauf zielt Moskaus Vorstoß ab. Ministerpräsident Wladimir Putin sieht darin die adäquate Antwort auf die Nato-Osterweiterung der letzten Jahre und vor allem den geplanten US-Raketenschild in Polen. Auch wenn Medwedew ein solches Junktim dementiert.

Trumpfkarte in Moskaus strategischem Machtspiel ist Venezuela, das sich zur Abwehr potenzieller US-Angriffe kürzlich mit 24 russischen Suchoi-Kampfjets und mehreren TU-Kampfbombern eindeckte. Beim heutigen Besuch von Medwedew werden neue Perspektiven der Zusammenarbeit eröffnet. Caracas hat bereits Interesse am Bau eines AKW mit russischer Unterstützung bekundet.

Printausgabe vom Mittwoch, 26. November 2008

mercredi, 26 novembre 2008

Russland und Brasilien planen technologische Allianz

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Russland und Brasilien planen technologische Allianz

Ex : http://de.rian.ru/

RIO DE JANEIRO, 25. November (RIA Novosti). Dmitri Medwedew ist zu einem dreitägigen Besuch in Brasilien eingetroffen. Neue Energie- und Forschungsprojekte stehen auf der Tagesordnung.

Am Dienstag besucht der russische Staatschef das Hauptquartier von Petrobraz, dem größten staatlichen Öl- und Gaskonzern Brasiliens. Er will in brasilianische Erfahrungen in Sachen Schelferschließung sowie in das nationale Programm für die Biokraftstoff-Herstellung Einblick nehmen. Ein Treffen mit Vertretern brasilianischer Geschäftskreise ist geplant.

Wie Medwedews Assistent Sergej Prichodko mitteilte, will der Präsident vor allem über den Ausbau der wirtschaftlichen und Forschungskooperation verhandeln. Das ziele darauf ab, eine „technologische Allianz“ der beiden Länder zu gründen.

mardi, 25 novembre 2008

Una victoria con sabor amargo

Una victoria con sabor amargo

La oposición se quedó con la vidriera política de la capital, Caracas, en una elección donde el Partido Socialista Unido de Venezuela se impuso con holgura en 17 de 23 estados (otros dos todavía no presentaban numero firmes). El oficialismo es la principal fuerza política a nivel territorial y recuperó más de un millón de votos de los perdidos en el fallido referéndum constitucional de 2007.

Disimulado estupor en el comando del Partido Socialista Unido de Venezuela y caras desencajadas de goce en un improvisado comando unitario de una oposición desunida, es la postal de una Caracas que se fue a dormir tarde con un brusco y -para muchos- inesperado escenario a partir de los primeros días del 2009. La sorpresa la dio la directora del Consejo Nacional Electoral, Tibisay Lucena, quien pocos segundos antes de las doce de la noche, confirmó que la alcaldía mayor de la ciudad quedaría en manos de Antonio Ledezma, ex dirigente del partido Acción Democrática.

El otro resultado recibido con preocupación en el cuartel del oficialismo fue en el vecino estado Miranda, donde Enrique Capriles Radonski, ex alcalde del municipio Baruta, procesado por el sitio violento sobre la embajada de Cuba durante el golpe de 2002, se impuso con cierta comodidad sobre el candidato del oficialismo y alguna vez vicepresidente de Hugo Chávez, Diosdado Cabello.

Si ese es el lado medio vacío del vaso, el lado medio lleno es el mapa de toda Venezuela que quedó, como le gusta decir al presidente Chávez “rojo rojito”: el Partido Socialista Unido de Venezuela (PSUV) se impuso en 17 de 23 estados, recuperando las gobernaciones de Aragua, Guárico y Sucre, y manteniendo Anzoátegui, Barinas, Bolívar, Yaracuy, Cojedes, Falcón, Guárico, Lara, Mérida, Monagas, Portuguesa, Trujillo, Vargas y Sucre, así como en el municipio Libertador de Caracas.

En términos numéricos, el PSUV recuperó parte del potencial electoral perdido el año pasado, cuando se impuso por un puñado de votos el NO a la reforma constitucional propuesta por el presidente Chávez, en lo que constituyó la primera derrota electoral del proyecto bolivariano. En diciembre pasado, el No triunfó con 4.379.392 votos, mientras que esta vez la suma de los votos a los candidatos del PSUV superó los 5.600.000.

Alta participación

A las cuatro de la tarde del domingo, cuando el sol todavía pegaba fuerte en Caracas, el CNE dio por formalmente cerrados los comicios regionales en Venezuela. Fue apenas una declaración formal, porque en la mayoría de los centros comiciales todavía se registraban largas colas de electores esperando su turno para votar.
La ley electoral venezolana es clara: los centros de comicios deben permanecer abiertos mientras haya ciudadanos esperando su turno. Y los había, y muchos. Y con mucha paciencia. En varias zonas del Este y el Sur de Caracas, ya bien entrada la noche seguían los colegios abiertos y sobre las 10.00 pm, más que tarde para los madrugadores caraqueños, aun se votaba en zonas populares. Lo mismo sucedía en varios estados, en especial en otras ciudades grandes, como Maracaibo.

Sólo viendo las largas colas extendidas hasta la noche, se sabía que la participación rompería récords para una elección donde no estaba en juego la figura presidencial. En el primer parte con casi todos los votos contados, el CNE confirmó la cifra: 65,45%

Elección compleja

En Sucre, en el este de Caracas y asiento de Petare, uno de los asentamientos populares más grandes de América Latina, los ciudadanos debieron elegir once opciones: gobernador del estado Miranda, alcalde mayor de Caracas, alcalde de Sucre, legisladores del estado y representantes citadinos, en votos por nombres y por lista.
Una recorrida de Rebelión por ese distrito verificó cómo el voto se hizo lento y complejo para los más viejitos y para los más humildes. Otra variable también fue evidente: por la mañana, detenidos por unas nubes que amenazaban con descargar un “palo de agua” -denominación local para los aguaceros-, fueron muchos los que se quedaron en casa.
Así, los primeros sondeos para el PSUV eran preocupantes . Fue cuando la militancia redobló esfuerzos y llegaron más -junto al sol oportuno de la tarde- a los colegios electorales. La afluencia dio frutos y al atardecer los números empezaron a cambiar, aunque no alcanzaron para revertir los malos resultados en Miranda y la alcaldía mayor de Caracas.

Los siguientes resultados corresponden al 95.67% de la transmisión en un promedio nacional:

Distrito Capital
Antonio Ledezma 52.45%
Aristóbulo Istúriz 44.92%

 

Municipio Libertador - Caracas
Jorge Rodríguez 53.05%
Iván Stalin González 41.92%

Anzoátegui
Tarek William Saab 55.06%
Gustavo Marcano 40.50%

Apure
Jesús Aguilarte 56.48%
Miriam de Montilla 26.54%

Aragua
Rafael Isea 58.56%
Henry Rosales 40.17%

Barinas
Adán Chávez 49.63%
Julio Cesar Reyes 44.58%

Bolívar
Francisco Rangel 46.97%
Andrés Velásquez 30.47%

Cojedes
Teodoro Bolívar 51.53%
Alberto Galíndez el 40.36%

Delta Amacuro
Lisetta Hernández 55.54% Pedro
Rafael Santaella 25.85%

Guárico
Lenny Manuitt 33.68%
Willian Lara 52.08%

Mérida
Marcos Díaz 54.62%
Williams Dávila 45.11%

Lara
Henry Falcón 73.15%
Pedro Pablo Alcántara 14.85%

 

Miranda
Henrique Capriles Radonsky 52.56 %
Diosdado Cabello 36.74%

Monagas
Jose Briceño 64.79%
Domingo Urbina 15.41 %

Sucre
Enrique Maestre 56.08%
Eduardo Morales 42.62%

Falcón
Stella Lugo: 55.27 %
Gregorio Graterol: 44.49%

Nueva Esparta
Morel Rodríguez: 57,64
William Fariñas: 41,69%

Portuguesa
Wilmar Castro Soteldo 57%
Jovito Villegas 27.28%

Trujillo
Hugo Cesar Cabezas 59.47%
Henrique Catalán 27%

Vargas
Jorge García 61.56%
Roberto Smith 32.18%

Yaracuy

Julio César León Heredia, 57.46%
Filipo Lapi 29.26%

Zulia
Gian Carlo Di Martino 45.02%
Pablo Pérez 53.59%

jeudi, 06 novembre 2008

La preferencia de nosostros mismos

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La preferencia de nosotros mismos

Alberto Buela (*)

En un artículo memorable El conflicto dólar-oro y la revolución
mundial (1966)  el cura Meinvielle, quien tuvo la rara capacidad de
distinguir las apariencias de la realidad sostuvo que:
" Es el caso actual del dólar como moneda internacional ( en esa época
ya, de facto,  sin respaldo en el oro) que no hace sino absorber la
riqueza de los países, sobre todo los menos desarrollados".
Poco tiempo después su premonición se cumplió pues en agosto de 1971
el presidente Nixon anuló la convertibilidad dólar-oro a 35 dólares la
onza troy tal como lo habían fijado los acuerdos de Bretón Woods en
1944 y comenzó a instalarse "la burbuja financiera y el dinero casino"
que denunciara hace ya once  años el economista chivilcochino Miguel
Angel Gago en el número 13 de la revista Disenso de 1997. Burbuja que
estalló hace un mes con un costo tan millonario en dólares, que se
hace  impensable para una cabeza común. El quiebre de la banca de los
"hermanitos Lehman" fue el disparador.

Pero… ya salieron los tontos de capirote, stultorum infinitus numerus
est, a perorar acerca de cómo salir del entuerto.
Los gobiernos más serios han propuesto un blindaje a sus empresas e
industrias,(Francia y Alemania) otros menos, un mayor control de sus
bancos y financias,(Inglaterra y España) mientras que, los poco
serios, manotean los ahorros privados y todo los que le quede a mano.
Ahora bien, el asunto fundamental, la causa de toda esta crisis
mundial del capitalismo casino ya fue denunciada por el general De
Gaulle en una famosa conferencia del 4 de octubre de 1965 donde
sostuvo que el drenaje de oro de los Estados Unidos iba a terminar con
el sistema monetario internacional y el predominio financiero mundial
del dólar.

El problema consistía, como muy acertadamente lo relata Meinvielle, en
si una economía como la usamericana con un fuerte aparato productor,
pero con reservas en oro que se debilitan en forma constante, puede
predominar sobre una economía como la europea con un fuerte respaldo
en oro pero no con tan fuerte aparato productor.
De hecho ha primado, las pruebas están a la vista,  la impresionante
capacidad productiva sobre la financiera. Lo que ha ocurrido ahora en
el interior del mercado usamericano es que la formidable capacidad
tecnológica, produjo más de lo que se puede adquirir, primó sobre el
poder financiero que se vio obligado a prestar aun en condiciones de
"no devolución" para mantener el consumo y los intereses mayúsculos
que sobre "el consumo inducido" percibía.

Pero… los tontos, siempre los tontos ya salieron a perorar. Así el
ingenuo de Obama propone como solución que los financistas de Wall
Street, los padres de este gran zafarrancho, ganen menos, que resignen
a sus voluminosas ganancias. O nuestro telúrico Daniel Larriqueta en
la Nación diario, se suma al mensaje de un ideólogo del mundialismo
como lo es Jacques Attali, que nos propone un Gobierno Mundial, pues
afirma: "Tenemos finanzas mundiales pero sin un Estado de derecho
mundial".

Es cierto que esta crisis extraordinaria del sistema
económico-financiero internacional está demostrando que existe una
insuficiencia de respuestas políticas y una incapacidad de los agentes
políticos para resolverla. Pero de allí a proponer la creación de un
Estado Mundial es un verdadero despropósito.

El mundo siempre va a ser más grande que los Estados Unidos y sus
intereses, afirmaba hace ya muchos años Carl Schmitt. Lo que puede
llegar a dejarnos esta fenomenal crisis es la enseñanza de que el
mundo no es un universo sino mas bien un pluriverso. Es decir, que
existen muchas y variadas versiones y visiones de lo que sea el mundo.
Hoy, específicamente, Suramérica ya tendría que estar trabajando sobre
una moneda única, al menos para Brasil y Argentina con un respaldo
sobre sus commodities, y así lograr una moneda fuerte y respetada en
el mundo.  En el funcionamiento efectivo del Banco del Sur, dejando de
lado la parodia brasileña de un "banquito" y crear un "banco fuerte"
como propone Venezuela. En la protección de sus industrias
estratégicas y sus fuentes de recursos históricos. En la construcción
de un mercado interno regional de carácter autocentrado con la
estimulación del consumo de sus propios productos. El lema sería el
del viejo economista Aldo Ferrer de: Vivir con lo nuestro.

Y por qué Suramérica y no Argentina sola, porque no alcanza nuestro
volumen de negocios (nuestro PBI anual es de solo 300.000 millones de
dólares, o sea, menos de la mitad de lo que dispuso Estados Unidos
para auxiliar a los "hermanitos Lehman y Cía"). Porque solos no
tenemos ningún peso en el mercado financiero internacional. Porque, en
definitiva, carecemos de agentes políticos y económicos que
privilegien lo nuestro y defiendan nuestro dinero y nuestras cosas.
(tenemos 260.000 millones de dólares de particulares depositados en el
exterior). La única posibilidad de existencia de una burguesía
nacional la teníamos en los contratistas del campo, que con seguridad
son el único sector de la economía que no lleva sus ahorros afuera,
pero, para no ser menos, la castigamos con medio año de incomprensión
y medidas desatinadas.

Hoy las burguesías de Brasil, Israel y España están más preocupadas
por nuestro destino (y sus intereses acá) que nosotros mismos.
En medio de esta catástrofe internacional vivimos en un limbo interior
de problemas caseros y de cabotaje sin lograr la toma de ninguna
medida apropiada a las circunstancias desgraciadas que padecemos y que
están licuando todos los días nuestros ahorros. Como gran genialidad
le preguntamos qué hacer a economistas como Mario Blejer quien primero
es ciudadano israelí, luego norteamericano y finalmente argentino.
Política y culturalmente hemos abandonado el principio de existencia
que es "la sana preferencia de nosotros mismos y de nuestros intereses
primarios".



(*)
alberto.buela@gmail.com

mercredi, 01 octobre 2008

Amérique latine: lumière révolutionnaire

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Paolo EMILIANI:

Lumière révolutionnaire

 

Washington a toujours considéré l’Amérique latine comme une sorte d’arrière-cour et le territoire des nations sud-américaines comme des espaces à dépouiller de leurs énormes ressources, par l’intermédiaire des multinationales américaines, sans que ces Etats n’aient à se préoccuper de politique étrangère. Certes, de temps en temps, la pure volonté populaire a triomphé dans certains de ces Etats mais toujours la seule CIA a suffi pour remettre les choses “en ordre”, comme ce fut par exemple le cas au Chili, où l’expérience Allende fut promptement coulée par le coup d’Etat de Pinochet, “sponsorisé” par les Etats-Unis.

 

En pratique, jusqu’à nos jours, l’unique exception a été Cuba, gouverné depuis presque un demi siècle par Fidel Castro, qui n’a jamais capitulé, ni après la tentative d’un coup de force militaire ni à la suite d’un embargo ininterrompu et criminel. A cause de cette résistance, jamais aucun président américain n’a pu “encaissé” le cas cubain, à commencer par le faux “bon” Kennedy mais, en fin de compte, Cuba n’est jamais qu’une petite île proche des côtes de la Floride.

 

Les choses commencent cependant à changer: les idéaux “bolivaristes”, le rêve d’une grande nation latino-américaine, pourraient devenir réalité.

 

Le guide éclairé de cette révolution bolivariste, celui qui pourrait faire jaillir l’étincelle d’un changement radical et “épocal” sur tout l’échiquier géopolitique mondial, s’appelle Hugo Chavez, président de la “république bolivarienne du Venezuela”. Chavez devient une référence pour tout le continent. Tout récemment, la Bolivie, lassée de devoir subir de continuelles tentatives de déstabilisation institutionnelle sous l’impulsion des services américains, a décidé d’expulser l’ambassadeur des Etats-Unis de La Paz. Chavez  a  immédiatement décidé de ne pas laisser seul son collègue Evo Morales et a fait aussitôt expulser l’ambassadeur américain en poste à Caracas et a menacé Washington de fermer les robinets du pétrole si les Etats-Unis persistaient à mener des actions hostiles aux gouvernements du Venezuela et de la Bolivie. Chavez est même allé plus loin: il a relancé une collaboration militaire avec Moscou; dans un passé fort récent, il avait déjà conclu des liens d’amitié solides avec l’Iran, créant ainsi les prémisses d’un accord international qui déciderait de facturer le pétrole en euro, acte qui marquerait le début d’une crise irréversible pour les Etats-Unis.

 

Les liens entre le Venezuela et la Bolivie sont désormais très forts et Chavez peut compter sur l’appui, plus ou moins sincère, plus ou moins déterminé, de quasi tous les gouvernements latino-américains et certainement d’un grande majorité populaire sur tout le continent. Chavez a démontré au monde que les hommes libres de la planète peuvent se dégager du régime mondialiste, que de nouvelles alliances entre les peuples sont possibles et que la lutte de l’un peut devenir la bataille de tous. Le régime globalitaire, jusqu’ici, avait pu détruire un à un ses ennemis, de Saddam à Milosevic, mais la roue tourne.... et “el pueblo unido jamàs serà vencido”.

 

Paolo EMILIANI.

(éditorial du quotidien romain “Rinascita”, 13-14 septembre 2008; trad.  franç. : Robert Steuckers).

mardi, 19 août 2008

Lo politicamente correcto y la metapolitica

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Alberto BUELA (*):

 

Lo políticamente correcto y la metapolítica

En estos días nos ha llegado desde varios lados un reportaje al militar franco-ruso, ahora devenido ensayista, Vladimir Volkoff sobre lo políticamente correcto. Las respuestas que da Volkoff son acertadas pero insuficientes, pues él limita lo políticamente correcto a un problema del decir: “circula a través de nuestro vocabulario. El vocabulario políticamente correcto es el principal vehículo de contagio”.

Es cierto que lo políticamente correcto, en inglés denominado political correctness, tiene que ver con una forma de decir; por ejemplo a un negro llamarlo "hombre de color",  hablar de interrupción del embarazo en lugar de aborto, invidente en lugar de ciego. Pero hay que dar un paso más en busca de su fundamento, sino simplemente nos quedamos en la descripción del fenómeno.

Así lo políticamente correcto es todo eso que dice Volkoff: el "todo vale", el cristianismo degradado, el socialismo reinvindicativo, el freudismo antimoral, el economicismo marxista, el igualitarismo como punto de llegada y no de partida, la decadencia del espíritu crítico, lo practican los intelectuales desarraigados, confunde el bien y el mal. Pero todo ello no alcanza para asir su naturaleza, esencia y fundamento. Incluso Volkoff afirma que: es de imposible definición.

Además, está el hecho bruto e incontrovertible de que existen temas y problemas políticos de mucho peso en la historia del mundo que no son tratados por ser políticamente incorrecto hacerlo, por ejemplo: el poder judío en las finanzas internacionales y en los medios masivos de comunicación o el poder de las sectas e iglesias cristianas al servicio del imperialismo. Vemos con estos solos ejemplos como lo políticamente correcto no se limita al decir o al dejar de decir, como sostiene Volkoff.

Además hay temas y muchos, que no son tratados ni mediática ni privadamente por ser políticamente incorrectos: la jerarquía, el disenso, la disciplina, el arraigo, la pertenencia, las virtudes, el deber, el heroísmo, la santidad, la lealtad, la autoridad, etc.

Nosotros sin embargo creemos que lo políticamente correcto se apoya y tiene su fundamento en el denominado pensamiento único. Pensamiento que encuentra su justificación en los poderes que manejan y gobiernan este mundo terrenal y finito que vivimos hoy.

Podemos definir lo políticamente correcto como la forma de hacer y decir la política que se adecua al orden constituido y al statu quo reinante. Es por ello que el simulacro y el disimulo, la amplia calle de la acción y el discurso político contemporáneo, tiene en lo políticamente correcto su mejor instrumento. Hoy la política  es entendida y practicada como “un como sí” kantiano. Se piensa y se actúa “como si ” se pensara y se actuara de verdad. Es por ello que los gobiernos no resuelven los conflictos sino que, en el mejor de los casos, los administran. Nos tratan de mantener siempre en una pax apparens como agudamente ve Massimo Cacciari, el filósofo y actual intendente de Venecia.

¿Y por qué hablamos de pensamiento único? Porque hay una convergencia de intereses de los distintos poderes que manejan este mundo que necesita ser justificada y su justificación se halla en el pensamiento único, que está constituido por el pensamiento social, política y académicamente aceptado. Esto prueba como lo han demostrado intelectuales "políticamente incorrectos" como Michel Maffesoli, Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Alain de Benoist, Günter Maschke,  y tantos otros, que existe una "policía del pensamiento" (los Habermas, Eco, Henry-Levy, Gass, Saramago -en nuestro país los Aguinis, Sebrelli, Verbisky, Feinmann, Grondona, etc.-) que determina en forma "totalitariamente democrática" quienes son los buenos y quienes los malos. A quien se debe promocionar y a quien denostar o silenciar. Es le totalitarisme doux propre des démocraties occidentales del que nos habla Mafffesoli.

Esta policía del pensamiento es una, como es uno el pensamiento único y como lo es también uno el sistema de intereses de los poderes mundiales, más allá de sus aparentes diferencias ideológicas. Perón a esto lo llamaba sinarquía, que el pensamiento políticamente correcto se encargó de negar y burlarse.

No se puede hablar en profundidad de lo political correctness sin estudiar aquello que constituye la pensée unique tan bien descripta por Alain de Benoist, Ignacio Ramonet o Vitorio Messori. Y no se puede hablar del pensamiento único sin hacer referencia a la unitaria madeja de intereses que sostiene el funcionamiento de los poderes indirectos, en muchos casos más poderosos incluso que los mismos Estado-nación. Todo ello a su vez tiene una fuerza coercitiva que es "la policía del pensamiento" que funciona en forma aceitada hasta en el último pueblito de la tierra.

Esta tenaza poderosa de dinero, poder político y prestigio intelectual es la que presiona sobre la vida de los pueblos para el logro de la homogenización del mundo y las culturas en una sola. Esta tenaza es la expresión acabada de un mecanismo perverso de alienación existencial de las naciones que pueblan la tierra. Y es en vista a la denuncia de este mecanismo perverso, donde se juntan lo políticamente correcto, el pensamiento único, los poderes indirectos y la policía del pensamiento, que buscamos hacer una observación crítica a lo sostenido por Volkoff.

La tarea de desmontaje de lo políticamente correcto es una tarea correspondiente stricto sensu a la metapolítica pues esta disciplina con el estudio de las grandes categorías que condicionan la acción política de los gobiernos de turno es la que nos brinda las mejores condiciones epistemológicas para el conocimiento de aquello que nos hace padecer lo políticamente correcto como vocero del pensamiento único impuesto a su vez por la policía del pensamiento. Lo políticamente correcto al transformar sus propuestas y temas en “el lugar común”, puede ser desarmado con el uso de la metapolítica que para Giacomo Marramao “ convierte a la divergencia en un concepto de comprensión política ”.

Con lo cual llegamos finalmente a constatar que para comprender acabadamente la política y lo político estamos obligados a desmantelar el andamiaje de este círculo vicioso conformado por lo políticamente correcto, el pensamiento único, los poderes indirectos y la policía del pensamiento que se retroalimentan entre sí en una totalidad de sentido, que en nuestra opinión produce ese gran sin sentido que caracteriza a la política mundial de nuestro tiempo.

(*) alberto.buela@gmail.com

lundi, 04 août 2008

Chavez à Moscou, Minsk, Lisbonne et Madrid

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 Chavez rencontre le Président biélorusse Loukhatchenko

 

Siro ASINELLI:

Chavez à Moscou, Minsk, Lisbonne et Madrid

A la recherche d’une géostratégie planétaire alternative

Le 21 juillet 2008 a commencé une semaine “brève mais intense” pour le président vénézuélien Hugo Chavez. En effet, il a entamé un voyage en Europe. Première étape: il aété reçu par son collègue russe Dimitri Medvedev, le 22. Outre ce rendez-vous moscovite, le chef d’Etat latino-américain prévoit également de brèves étapes en Biélorussie, en Espagne et au Portugal. Ce voyage n’a duré que quatre jours mais, avant de l’entamer, Chavez, lors du rendez-vous hebdomadaire  et dominical qu’il donne à son peuple, en parlant à la radio, n’a pas hésité à le qualifier de “stratégique”. Il a expliqué en direct durant l’émission “Alo, preidente!”: “Il s’agit d’un voyage très important, je dirais même qu’il s’agit d’un voyage stratégique et géopolitique dont l’objectif est de consolider toujours davantage la position du Venezuela”.

A l’ordre du jour, nous trouvons essentiellement la coopération bilatérale dans les domaines du développement technologique, militaire, scientifique et énergétique. Les antennes de la communauté internationale ont donc indubitablement cherché à capter le maximum sur les rencontres du 22 à Moscou. La veille du voyage en Russie, où Chavez est arrivé dans la nuit du 21 au 22, le président vénézuélien n’a fait aucun mystère sur les buts de son périple européen; sur le plan formel, a-t-il dit, l’objectif est “de créer des relations d’amitié sur base d’une sensibilité politique commune”. Sur le plan plus strictement matériel, cela se traduira par la signature de plusieurs contrats, pour des montants de plusieurs millions de dollars, portant sur la livraison d’armes. Le premier citoyen du Venezuela a lui-même évoqué l’acquisition possible, par Caracas, de chars russes et d’autres matériels de haute technologie destinés aux forces armées vénézuéliennes. Des sources, en provenance des milieux de l’industrie militaire russe, citées par de nombreux organes de presse latino-américains, confirment que plusieurs contrats de ce type étaient déjà sur la table autour de laquelle se sont réunis Chavez et Medvedev. Dès le 22, de vieux projets préparés entre le “Palacio Miraflores” de Caracas et l’ancien président russe  —et actuel premier ministre—  Poutine pourront se concrétiser. Notamment l’acquisition par le Venezuela de trois sous-marins diesel de la classe “Varchavianka” et de la troisième génération. Ce contrat, l’an passé, avait  été l’objet d’âpres critiques de la part des pays soumis aux Etats-Unis, qui craignent l’alliance russo-vénézuélienne.

Par ailleurs, rappelons qu’en 2006 un embargo unilatéral avait été décrété  à propos de la vente d’armes au Venezuela: de ce fait, les Etats-Unis avaient laissé le champ libre à leurs rivaux russes, devenus, en conséquence, les principaux fournisseurs des forces armées du pays latino-américain mis à l’écart de l’américanosphère. En deux ans, les contrats militaires conclus entre la Russie et le Venezuela portent sur un chiffre qui dépasse désormais les quatre milliards de dollars américains. Parmi les accords russo-vénézuéliens qui ont fait froncé les sourcils des atlantistes: la construction, encore en cours, d’une usine de fusils d’assaut fabriqués sur le modèle de la Kalachnikov de la toute dernière génération, l’AK-103, sur le territoire vénézuélien. Pour ceux qui ne cessent de dénigrer la “République bolivarienne” de Caracas, c’est la preuve que les institutions contrôlées par Chavez seront au premier rang pour fournir des armes à tous les guerilleros d’Amérique latine.

La signature des deux présidents ne sera finalement que simple formalité: fin juin, le vice-président vénézuélien Ramon Carrizales et le ministre de la défense Gustavo Rangel se trouvaient déjà tous deux à Moscou. Mais l’importance des relations entre Moscou et Caracas  ne se limite pas au domaine militaire. Avec la nationalisation des ressources énergétiques, qui s’est opérée au cours des trois dernières années au Venezuela après l’approbation de lois visant à soutenir les atouts de la souveraineté nationale, Chavez a réussi à attirer habilement sur son territoire les grandes compagnies d’Etat russes, elles aussi récupérées et tirées des griffes des capitaux privés et étrangers grâce aux trains de lois impulsés par Poutine au cours de ses deux mandats présidentiels. A la fin de l’année 2006, la Lukoil a commencé à extraire du pétrole des gisements vénézuéliens, tandis que la Gazprom a obtenu, dès 2005, la licence d’exploiter les dépôts de gaz naturel dans le Golfe du Venezuela.

Les projets communs dans les secteurs militaire, minier et scientifique connaîtront forcément des développements dans l’avenir, comme l’a d’ailleurs confirmé le ministre des affaires étrangères de Caracas, Nicolas Maduro. Si le point fort reste la coopération militaire, il n’en demeure pas moins vrai qu’ “il s’agit d’une alliance qui permettra à notre pays de rompre le bloc militaire que l’élite américaine cherche à nous imposer”. Les pourparlers en vue de créer une banque russo-vénézuélienne laissent entrevoir des perspectives plus vastes. L’objectif de cette banque sera de financer de futurs projets bilatéraux. L’idée est venue à la suite de la création, sous l’impulsion de Chavez, de la “Banco del Sur”, qui fonctionne déjà en Amérique latine. Nous avons là une autre facette du grand projet d’alternative globale aux actuelles institutions financières privées  comme la Banque Mondiale et le Fond Monétaire International, que Chavez a récemment proposé lors du sommet “Petro Caribe”, en suggérant comme futurs partenaires la Russie, la Biélorussie, la Chine, l’Inde et l’Iran.

Le voyage en Europe de Chavez ne s’est toutefois pas terminé à Moscou. Le 23, le président vénézuéliens’est rendu à Minsk pour rencontrer son homologue biélorusse Alexander Loukachenko, avec lequel il avait déjà signé des accords bilatéraux en matières d’énergie, de technologie etaussi dans un secteur fondamental pour la Biélorussie: celui de la coopération agro-alimentaire.

A Lisbonne, où il s’est rendu après avoir quitté Moscou et Minsk, Chavez a été l’hôte du  premier ministre portugais José Socrates. Les deux hommes ont signé de nouveaux contrats de coopération alimentaire et énergétique, tandis que les premiers pétroliers vénézuéliens étaient déjà en route pour le Portugal, comme Chavez l’avait annoncé à la radio, avant son départ.

En fin de périple, Chavez s’est retrouvé en Espagne, où il s’est rendu, non pas tant pour signer certains accords commerciaux, mais surtout pour sceller la paix, à la suite de la querelle haute en couleurs qui l’avait opposé naguère au Roi Juan Carlos. Celui-ci lui avait lancé un peu diplomatique “Mais ne peux-tu donc pas la fermer?” lors du Sommet Ibéro-Américain à Santiago du Chili. Les deux protagonistes de l’algarade verbale semblent avoir enterré la hache de guerre. Chavez a rencontré à Madrid le premier ministre José Luis Rodriguez Zapatero  puis s’est probablement rendu dans la résidence royale d’été à Majorque. Chavez avait annoncé et espéré cette visite dans son discours à la radio, sur un ton mi-sérieux mi-facétieux: “J’aimerais bien te faire l’accolade, Juan Carlos, mais tu sais que je ne la fermerai jamais et que je continuerai à parler pour un monde de justice et d’égalité”.

Siro ASINELLI.

(article paru dans le quotidien romain “Rinascita”, 22 juillet 2008;  trad.  franç.: Robert Steuckers).